SERGIO DA MOLIN

Correva l’anno 1970, quando sei amici-artisti a Bari fondarono uno spazio artistico culturale “Centrosei”. Era un gruppo di giovani emergenti, carichi di idee e di voglia di condivisione, ed erano aperti a varie sperimentazioni nel campo delle arti visive.

Da queste importanti radici inizia ad affermarsi l’arte di Sergio da Molin, eclettico autore di opere d’arte dal gusto pop e di sperimentazioni informali. Le sue opere eseguite con tecnica serigrafica, e ibridate anche attraverso interventi plurimi con smalti e oli, portano con loro tutti quei simboli-icona della nostra contemporaneità legandosi, attraverso una grammatica di immagini collegate alla corrente artistica della pop art, ad un nuovo modo di concepire, a livello intellettuale, una corrente artistica apprezzata in tutti i tempi. Da Molin ne raccoglie le ceneri e rivisita sia la composizione “schelettrica” che le tematiche affrontate, attualizzando l’impianto risultante con oggetti e immagini a lui più contemporanei. L’artista cammina così passo passo con il proprio tempo. Ciò che si vive nei suoi quadri è una sorta di tempo non tempo, un ponte che porta a suggellare l’arte nell’eternità. La storia ripercorre sempre le stesse tappe, i personaggi cambiano nomi, ci sono sfumature diverse, ma alla fine gli archetipi vengono sempre riproposti, il punto fondamentale però, e di basilare importanza per rendere l’originalità dell’idea, sta nelle variazioni dettate dall’ intimo sentire e dalla nota di creatività insita nell’artista.

I colori che spiccano nella tavolozza di Da Molin sono: bianchi, blu e rossi, quasi volesse fare un omaggio indiretto sia all’America come all’Inghilterra, e comunque, a quell’ironia sottile anglosassone che, seppur tagliente per certi versi, denuncia sempre il vero.

Artista del suo tempo, nonostante raccolga le ceneri di una storia ormai andata, si ricordano così, negli anni ‘60 le interazioni favorevoli tra arte e musica con la presenza determinante dei Velvet Underground e quei meravigliosi e stimolanti salotti organizzati da Andy Wharol nella sua “Factory”, che divenne una vera fucina di talenti in ogni forma d’arte, o le contaminazioni e rielaborazioni degli artisti Pop europei successive ai risultati ottenuti in America, come con le opere di Schifano e Baj. Ogni tempo ha i suoi miti e le sue icone, i suoi punti meno forti e di maggior vigore che segnano, vuoi che no, il gusto e l’evoluzione di una società. Attraverso l’arte si possono denunciare i punti deboli della società che in questo caso è schiava del consumismo, ma anche di falsi miti e che distolgono l’umanità e l’allontanano dalla verità dell’essenza dell’essere umano. Un giocoforza di equilibri non equilibri, legati all’apparenza dell’esistenza, intrappolati in quella matassa che solo l’arte può incanalare verso una visibile ed eloquente analisi introspettiva dell’individuo, inserendolo così l’uomo, nelle bieche disarmonie che lo allontanano dalla natura del suo essere, come dalla natura, vista come madre accogliente, la Pacha Mama. La sovrapposizione delle lastre in serigrafia, condotta con maestria e conoscenza da Da Molin, rendono ogni opera unica nel suo genere, nelle sue creazioni oltre che “giocare” con una ben ferma conoscenza del mezzo tecnico artistico attraverso calibrate sovrapposizioni, egli  allieta la sua creatività inserendo immagini speculari contrapposte, talvolta il soggetto sembra specchiarsi dentro sé stesso e il fruitore inevitabilmente è condotto a cercare un percorso da intraprendere e che lo porti a decriptare i messaggi dei quadri così costruiti. Molte volte la chiave di lettura si cela nel titolo loro legato e tante altre, lo stesso titolo, diventa deviante e sconcertante e conduce il fruitore nell’enigma, nel rebus da risolvere. Un gioco di equilibri e disequilibri, di parole non dette e allo stesso tempo l’artista lascia anche la libertà di interpretazione come valore aggiunto all’opera stessa. La pop art in genere, almeno quella degli anni 50/60, ricicla tutto ciò che è consumismo, in una pittura resa fredda sia data dalla sintesi delle forme, che dalla stesura del colore e rende l’immagine risultante impersonale, come le immagini proposte dai mass-media, in Da Molin invece questo non accade, perché, seppur proponga personaggi e oggetti a noi noti, li accosta tra loro, o li ubica, nella struttura ospitante, filtrandoli attraverso un personale modo di sentire e di viverli nella propria quotidianità. Non ripete in modo ossessivo le immagini, ma la sua galleria artistica, invece, si esaurisce velocemente per dar sempre più spazio ad un dialogo silenzioso che crea tra quadro e quadro. L’autore struttura tutto il suo elaborato in una sorta di diario di bordo dove appunterà, in maniera intelligente e non psicotica, l’analisi di una contemporaneità si, in continua evoluzione, ma anche radicata in taluni punti fermi e riconoscibili che ci accomunano tutti, scalzando in parte l’intenzione dei mass media che è quella di far giungere, l’uomo burattino, a una condizione esistenziale di assorbimento all’interno delle sue diaboliche macchinazioni. L’artista ha elaborarato un personale abbecedario di specifici miti della recente cultura figurativa, inserendo dapprima delle nuove icone, ma rivedendole con un diverso approccio critico rispetto al passato. La smaterializzazione del colore evince così particolari segnici dell’immagine mentale, prima di tutto, facendo forza sul ricordo. Le opere di Da Molin sono ambasciatrici di un percorso più soggettivo che oggettivo, nonostante non abbandoni mai un’esplorazione profonda dei meccanismi produttivi dell’immagine del sistema che velatamente denuncia.

Tanta innovazione e dedizione da parte dell’artista legata a questo filone dell’arte che l’ha accompagnato per lunghi anni, la sua galleria raccoglie e sviscera, oramai da decenni, un’ indagine sulla società e di questa traccia un percorso rivisto a mezzo di una soggettività intimistica di evoluzione o ancor meglio di involuzione sociale, perché, quella denuncia fatta a partire dagli anni ‘60 è ancora, ahimè, attuale, in quanto l’uomo, seppur essere pensante, ancora non si è riuscito a staccare dalle influenze che i mass-media attivano su di lui, facendo così perdere in parte la sua originalità di pensare e bloccandone la creatività. L’infaticabile lavoro psico-artistico-sociale, condotto da Da Molin rimane così un importantissimo documento di storia che, attraverso le immagini, racconta gli ultimi secoli di tendenza della società, si vero filtrata da un vedere e sentire personale, ma collegata sempre e comunque ai fiumi e tempeste di messaggi macchinati dai mass-media.


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