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[CASPAR DAVID FRIEDRICH: “VIANDANTE SUL MARE DI NEBBIA” (1818) a cura di Raffaella Ferrari
CASPAR DAVID FRIEDRICH
VIANDANTE SUL MARE DI NEBBIA 1818
VD (video dedicato)
ideato e prodotto da Eclipsis Style Project
L’opera, icona del Romanticismo tedesco e attribuita a CASPAR DAVID FRIEDRICH ritrae in primo piano, un uomo misterioso, un viaggiatore solitario, vestito con cappotto di pesante lana verde petrolio e un bastone da passeggio tenuto dalla mano destra. L’uomo è posto di spalle e in controluce, in perfetto equilibrio e sull’orlo di una sorta di rostro roccioso privo di vegetazione, scuro e reso apparentemente scivoloso dall’aria plumbea che domina la scena in secondo piano. Il protagonista sembra essere un uomo di mezz’età, con una folta capigliatura bionda e arruffata dal vento, nel fiore della sua maturità fisica e spirituale e si evince dalla postura del corpo, coronata da un’ambientazione sospesa, che sia alla ricerca di Sé stesso. Il viaggiare lo porta a contemplare l’immensità del non finito e il suo pensiero fila alla ricerca della Verità e mira ad un ricongiungimento con la Natura, ricercando anzitutto l’Essenza della sua Anima. E come appunta Friedrich: «Il Divino è ovunque, anche in un granello di sabbia», egli avvalora così e ripropone il pensiero filosofico del Romanticismo che sosteneva che l’uomo ricongiungendosi alla Natura desidera in realtà trovare Dio in quanto Lui vive in essa.
La forte valenza psicologica data dagli elementi e la costruzione del quadro pongono inevitabilmente lo spettatore ad immedesimarsi nel personaggio ritratto. Quell’infinito inafferrabile vaporoso diventa così la sede di un’emozione soggettiva che si fa sentire Universale e che coinvolge tutti. Varie sono le implicazioni psicologiche che entrano in gioco e che dialogano in un’espressione metacomunicativa con l’osservatore che sente senza pensare e si stupisce senza conoscere. Non pretendiamo dare spiegazioni colte del linguaggio dell’Arte, ma entriamo in punta di piedi nel gioco della coscienza collettiva, di quel mondo che appartiene a tutti. Il rapporto dunque tra artista e osservatore è reso intimamente stretto, voluto e atto a rafforzare quel sentimento profondo e vero che sentono tutti nel loro percorso. Il viaggio è così una metafora della vita umana, in cui la domanda a cui rispondere una volta giunti ad un bivio è dove andare…cosa fare…come procedere. La nebbia allora accresce ancor più questo stato d’animo sospeso e senza ancoraggio momentaneo ad una Realtà che comunque deve essere vissuta, finché c’è vita…finché quel battito di cuore con presenza echeggia nella pace della natura…accumulando in sé l’energia dell’Universo, la Vita.
Raffaella Rita Ferrari ©
Contributo musicale: Depeche mode – Enjoy the silence
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Gustav Klimt: “Vita e Morte” (1908-1915) – commento critico a cura di Raffaella Ferrari
Gustav Klimt: “Vita e Morte” (1908-1915)
Leopold Museum, Vienna olio su tela, 178 × 198 cm
ideato e prodotto daEclipsis Style Project – eclipsisproject19@gmail.com
La polisemia, nata dall’unione tra colore e simbolo, nell’opera di Gustav Klimt, possiede un ruolo concreto nella comunicazione diretta con il fruitore. Il gioco duale così tracciato, tra significato e significante e tra Eros e thanatos, è rappresentato con la simbologia allegorica contenuta in quest’opera dal titolo: “Vita e Morte”, ed è ancor più sostenuta nell’adottata grammatica artistica dell’autore, in cui spesso, si vedono ritrarre immagini di uomini e donne, aggrovigliati in caldi e sensuali abbracci e sostenuti da un attento gioco d’equilibri degli opposti, dove si riunisce tutta la forza dell’Energia dell’Universo. Il simbolo, dunque, è strumento per un approccio più intuitivo verso l’oggetto rappresentato, e attiva l’automatismo della comprensione inconscia. L’ambientazione della scena del quadro, si sviluppa in un mondo onirico. A destra, è descritta la Vita e le sue fasi, dal suo nascere al suo scorrere nella linea dell’orologio del tempo. I volti, le posizioni, la tensione dei muscoli e le mani che proteggono o accarezzano, rimandano a degli stati d’animo dei protagonisti nel loro vivere terreno, e si evincono palesemente, le emozioni provate nell’attimo fermato come: le naturali pulsioni, paure e desideri vissuti attraverso la sensualità del linguaggio pittorico. La prospettiva ad ellisse che ricorda per forma il sacco amniotico, racchiude in sé tutto il dinamismo sognante e serafico della narrazione dedicata al circolo dell’Esistenza, la prospettiva così risolta crea una sorta di aura, di barriera, atta a proteggere dal possibile attacco dell’altro inquietante protagonista della scena, posto a sinistra, la Morte. L’intento principale di Klimt, è quello di condurre lo spettatore attraverso un’orientata lettura del quadro, che grazie ad un armonico uso dei colori, che si fanno sì forza nell’opposizione cromatica, pone volutamente la prima attenzione verso destra e rivela successivamente l’altra figura, mentre il fondo grigio ospitante non mostra alcuna vitalità emotiva, c’è e non c’è, e porta in sé l’assenza del Tutto, il non peso del mondo assorbito in un sonno paradisiaco, o potrebbe anche rappresentare, in una sorta di suspence emotiva, la fissità dell’attimo prima che qualche cosa accada. La Morte chi sceglierà di colpire con il bastone? Le direttrici dello sguardo vuoto, di questo scomodo elemento, cadono chiaramente sulla vittima designata e che rappresenta per antonomasia il fiore puro della vita, il piccolo infante. Nella simbologia crudele del gesto, si evince la distruzione voluta, e diretta, a ciò che nasce e che inevitabilmente si esprimerà nell’atto di annientamento dello stesso, con conseguente risultato di voler estinguere la specie, partendo dall’estirpazione della vita del germoglio nascente. Proprio per questo, il piccolo è posto al centro della composizione, avvolto e protetto nella piramide degli affetti che lo hanno generato. La rappresentazione filiforme della Morte, che sembra agire indisturbata nell’oscurità della notte, è imbozzolata in un vestito dai colori che contraddistinguono la sua provenienza diretta dalle tenebre, dal mondo dell’oscurità ed è decorato con croci riconoscibili e che riconducono alla simbologia della dottrina cattolica. Vita e Morte si svelano come stato nella loro pienezza, ma rimangono ben distinte nello spazio pittorico, quasi a significare che una non appartiene all’altra. In queste figure si affaccia evidente anche la corrispondenza tra morte e sessualità, in quanto accanto al moto erotico, tema onnipresente nella cifra pittorica di Klimt, e che meriterebbe ulteriori e dedicati approfondimenti, determinabile nella vita, vi è una propensione devastatrice che è implicita alla vita stessa. Sono due impulsi inseparabili, l’uno al servizio dell’altra. Questi intrecci e corrispondenze, l’avvicinarsi e allontanarsi dalle consapevolezze, ci portano a non attribuire mai il giusto peso al pensiero della Morte rapportandola al nostro quadro perfetto della vita. E, in fin dei conti, perché darci torto?
Raffaella Rita Ferrari ©
Musica: The Dark Knight – Hans Zimmer _J. Newton Howard – LIVE
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Gustave Moreau: “Edipo e la Sfinge” (1864) – commento critico a cura di Raffaella Ferrari
Gustave Moreau: “Edipo e la Sfinge” (1864)
ideato e prodotto da Eclipsis Style Project – eclipsisproject19@gmail.com
Ieri come oggi e come sempre, il mistero della filosofia è lo stesso mistero rivolto al perché della vita, che si riassume nell’opposto significato tra vita vista come esplosione di energia e morte vista come mutazione dell’energia stessa, ossia chi eravamo prima e cosa saremo dopo. L’enigma della vita e la necessità dell’uomo di cercare la Verità, lo conducono a confidare a sé stesso che le cose del mondo si modificano in altro da Sé e che si trasformano nel nulla, che non è niente, mutando così la loro forma. Il credere a questa trasformazione, ossia divenir-altro o nascere da qualcosa, conduce l’uomo a porsi delle domande e a interrogarsi sulla ragione delle cose e di quel Tutto che le raccoglie. Ognuno di noi è portato a cercare nel proprio IO la verità che risiede nell’intimità della personale dimensione esistenziale. Qui si cela l’enigma degli enigmi, la spiegazione del mistero della vita nella vita stessa e fuori da essa. Ciò che si percepisce del mondo con l’Anima, dimora nelle idee e le stesse sono l’emblema più prezioso che ci caratterizza, lì proprio lì siamo noi nella nostra interezza. L’arte rivela la realtà che si trova sia da una parte che dall’altra della coscienza, in quanto in essa v’è l’incontro tra le immagini reali e quelle che risiedono dentro noi, cosicché nel dipinto si compenetrano, in una misteriosa osmosi, il nostro essere e non essere, stabilendo una continuità tra il mondo soggettivo e quello oggettivo. La narrazione del quadro si sviluppa e si concentra sull’orrenda chimera, la Sfinge, desunta dalla tradizione dell’arte greca, ammaliatrice sicura, con volto dai tratti delicati di una giovane donna con seni tonici, il corpo possente e sporco tipico di un aggressivo leone con ali di rapace, ornata da un’acconciatura con corona simbolo della vittoria della Natura sull’uomo. La Sfinge si posa sul petto del leggendario eroe greco Edipo come una disponibile amante bloccandolo alla parete della roccia pronta a donarsi. Con la zampa destra preme il simbolo del potere dell’uomo, ma che è anche talvolta la sua debolezza. Edipo aveva raggiunto le sommità del Monte Ficio, e come consuetudine la Sfinge riserva anche a lui l’indovinello-tranello: “Qual è la creatura che cammina su quattro piedi al mattino, su due al pomeriggio e su tre di sera?.”, la cui risposta determinerà la vita o la morte dell’eroe. Edipo però conosce la risposta, e sfugge così alla fine garantita, sorte certa invece per gli altri pretendenti periti e inseriti nel dettaglio alla base del quadro stesso, macabro particolare e simbolo della precarietà dell’esistenza umana, Molti sono i simboli che evidenziano la presenza della morte in questo scenario drammatico e teso come: la colonna, che richiama lo stile corinzio, è avvinghiata da un serpente che simboleggia la tentazione, la risposta da parte dell’uomo agli istinti primitivi. La colonna sorregge un’urna funeraria colma di cenere arricchita da tre sciacalli di chiaro richiamo egiziano, che identificavano il signore della morte e dell’oltretomba. Appena sopra, a destra, una farfalla blu, simbolo del potere della mente e dell’immortalità dell’Anima, la trasmutazione da materia in energia. Si contrappone, sulla sinistra, un altro elemento chiave nella lettura del quadro, il piccolo albero di fico ricco di frutti maturi, l’asse del mondo, che collega il cielo alla terra, per sottolineare viceversa la vita, la luce, il coraggio, la forza e la conoscenza e volto a sottendere che, solo grazie a queste Virtù, si possa sfuggire alla tentazione e conseguentemente alla morte. Con questi simboli il quadro ha una dinamica di rimbalzanti tensioni che animano tutta la scena e che si focalizzano nel dialogo dello sguardo penetrante, di sfida e seduzione tra la Sfinge e Edipo, lasciando spazio all’immaginazione e a un incanto fantastico fatto della stessa materia dei sogni come degli incubi. Così attraverso la mitologia Moreau trova l’unica strada che gli permetta di svelare l’inesprimibile e la scena nel suo insieme è paradigma della condizione umana. Gli eterni opposti, maschile e femminile, la vita e la morte, la viltà e il coraggio, spirito e materia, bene e male, abbandono e razionalità. L’uomo, solo grazie alle sue Virtù, e in particolare con il potere della sua mente amalgamata alla forza del cuore, riuscirà a superare le tentazioni devianti e potrà camminare nel suo lungo percorso, verso la conquista della spiritualità, che si edifica passo dopo passo, lungo il difficile cammino della vita. In fin dei conti le ricchezze materiali o cedere alle tentazioni non faranno mai raggiungere la vera felicità e nemmeno appagheranno la vera prosperità, quel tesoro risiede solo nello spirito e nel cuore, ma non di tutti.
Raffaella Rita Ferrari ©
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Giorgio de Chirico: ‘Ettore e Andromaca’ – 1969 – commento critico a cura di Raffaella Ferrari
Giorgio de Chirico: ‘Ettore e Andromaca’ – 1969
VD (video dedicato)
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Nell’arte ci sono alcuni soggetti privilegiati e ripresentati sotto varie forme pittoriche come scultoree. Il tema proposto e illustrato da de Chirico, e rielaborato varie volte nella sua galleria pittorica in più trance a partire dal 1917, si riferisce alla vicenda descritta nel libro sesto dell’Iliade da Omero, l’ultimo istante condiviso tra Ettore e Andromaca. L’eroe saluta la moglie prima di affrontare in duello Achille, ma quello sarà in realtà l’addio nell’abbandono poggiato sotto l’ombra delle porte Scee che lo rivedranno tornare li, cadavere, e trascinato dal carro di Achille trionfante. Le porte de chirichiane mantengono la loro peculiare e originale caratteristica ossia l’apertura sghemba, con il lato destro più avanzato e più alto rispetto a quello sinistro. L’attenzione rivolta al particolare di de Chirico manifesta la profonda ricerca rispetto a ciò rappresentava nei suoi teatri pittorici dove si rispecchiavano, nella meticolosa ricerca di tutti quegli elementi inseriti nelle pitture, la precisa e scrupolosa cultura di conoscenza personale. Le porte Scee, chiudono la scena che si svolge al centro della composizione, e ne contengono una dimensione teatrale lacerante, segreta e fatta di impercettibili messaggi che vanno oltre il rappresentato e che preannuncia il presagio di ciò che ancora deve compiersi. L’atmosfera si carica di un tacito ma percepibile sentimento reale e allo stesso tempo immoto, sospeso drammaticamente in un terribile attimo. Le porte Scee dal color rosso-brunito, sono anteposte ad un orizzonte nello sfondo struggente e malinconico che sfuma dal color vaniglia verso il verde denso petrolio e dove si intravede un unico elemento in movimento e quasi impercettibile, una vela “quadra” di nave che ondeggia pacata nel Mar Egeo. L’ultimo abbraccio offeso dall’assenza delle braccia, quel contatto diviene inafferrabile e ineffabile, non c’è incrocio di sguardi, ma la meta-comunicazione parla, urla a mezzo della postura e delle energie interne, il consumarsi di un dramma interiore, desolante, impossibile da sopportare, e Ettore, leggermente reclinato verso Andromaca, imbozzolata nel suo rigido e composto dolore, in un atteggiamento più morbido e compassionevole, riconosce e interiorizza nell’immedesimazione del sentimento di supplica l’ottenebrato sentire dell’amata. I manichini si umanizzano e la loro struttura assemblata, già priva di vita, accolgono in sé il principio del non senso dell’esistenza che si può solo tradurre in arte per poter essere. In quest’opera de Chirico riesce ad esprimere il valore universale del gesto in una sospensione nello spazio di un momento che non dovrebbe mai finire, perché finito l’attimo, finirà la vita per entrambi. Ogni elemento che compone la scena è null’altro che quello che è, e de Chirico di certo non ha pretese interpretative superiori sugli elementi da lui prescelti, conduce così il nostro sguardo ad andare oltre il visto e il realmente visibile, colmandoci di tutte quelle tensioni psicologiche ed emotive che tuonano nel silenzio atemporale e adinamico della scena. Il mistero e l’enigma sono ravvivati da quelle ombre che si fanno elementi fondanti nei loro particolari, e creano uniche ed improbabili fantasmagoriche atmosfere, dove de Chirico sicuramente percepisce ciò che sta oltre la materia visibile, in quel esserci senza uno specifico peso. Solitudine, spaesamento, sospensione in un frangente di vita dove una decisione personale verrà presa e che determinerà, senza contare le necessità di chi sta accanto, il prosieguo della vita stessa o si rivelerà un preludio verso una sola fine certa… Ma che non sarà solo la sua….
Raffaella Rita Ferrari ©
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Caravaggio “Riposo durante la fuga in Egitto”, 1597 , critica a cura di Raffaella Rita Ferrari
Caravaggio: ‘Riposo durante la fuga in Egitto’
ideato e prodotto da Eclipsis Style Project – eclipsisproject19@gmail.com
Michelangelo Merisi detto il Caravaggio “Riposo durante la fuga in Egitto”, 1597 Nel suggestivo dipinto “Riposo durante la fuga in Egitto” di Caravaggio, realizzato intorno al 1597 e custodito nella prestigiosa Galleria Doria Pamphilij a Roma, emerge un’elevata intensità emotiva espressa dai personaggi che lo rappresentano. Gli ‘attori’ sono posti nell’opera in una sorta di scena teatrale, dove la luce sembra carezzare, con il suo fascio diretto da sinistra, sia gli elementi da porre in risalto, com’anche creare le zone d’ombra atte a restituire un’ambiente riconciliante e di riposo. I protagonisti sono messi in relazione tra loro da un evidente e pulsante affetto che si manifesta attraverso l’energia percettibile e trepidante di vita sotto le vesti, in una sorta di connessione Animica, atemporale ed elevata. Il delicato gioco degli sguardi che si incrociano tra San Giuseppe, l’asinello e l’angelo, danno vita a dialoghi silenziosi, rispettosi del sonno altrui, e sussurrano timidamente, con estrema riservatezza, la compartecipazione alle pene e ai pensieri rivolti ad un futuro e a questo viaggio della speranza incerto. Lo spaccato dell’attimo ritratto è diviso in due parti, a sinistra Giuseppe che rappresenta la povertà ed è affiancato dall’asinello e a destra la Vergine Maria con il Bambino a sottintendere invece la Vita Eterna. Giuseppe è ritratto con mani articolate e nodose e volutamente messe in evidenza, che gli conferiscono una straordinaria autenticità fatta da un iperrealismo esecutivo ineguagliabile. Lo sguardo di chi guarda viene catturato dalle varie scene e carezza con diversa intensità i protagonisti, trovando un punto pacificante nel gruppo teneramente raccolto nell’ abbraccio tra la Vergine e il Bambino, abbandonati e avvolti da una natura rigogliosa e abbondante e che evoca una profonda sensazione di beatitudine. L’angelo, come un inviato dell’amore divino, indossa un velo che dona al suo corpo una armonia e una morbidezza quasi androgine, proprie di un giovane ragazzo dai tratti soffici e da un corpo ancora non completamente maturo. Il paesaggio dipinto da Caravaggio, uno dei pochi esempi di scene naturali presenti nella sua produzione artistica, è suggestivo e coinvolgente e ci cattura piacevolmente in un’atmosfera d’ascesi divisa in mirabili equilibri tra Realtà, Natura e l’Oltre. La luce, vivida e direzionata a mettere in evidenza alcuni voluti particolari, si ammorbidisce quasi a non voler disturbare quel pacificante momento del riposo e conferisce un’esperienza mistica e autentica, caratterizzata da una percezione intensa di luce e di illuminazione spirituale. L’asino, con quel delicatissimo occhione nero è presente e attento alla scena, quasi si umanizza nell’ascolto della regalata melodia. L’angelo, con doppie ali che ricordano esternamente quelle di una rondine, suona un violino, instaurando un’interazione quasi irreale tra se stesso, San Giuseppe e in cui viene coinvolta però anche la sensibilità dell’asinello, devoto al suo padrone. Questi piccoli dettagli, come la fiasca abbandonata a terra in modo casuale, contribuiscono a creare un’atmosfera famigliare e accogliente. Ai piedi della Vergine, si possono osservare piante rigogliose, tra cui l’alloro che simboleggia la verginità, mentre la rosa e il cardo, sono emblemi della Passione di Cristo, come il tasso barbasso rappresenta la redenzione e la rinascita spirituale. Gli elementi simbolici inseriti, richiamano sempre al simbolismo della Fede Cristiana, come il violino con una corda spezzata che rappresenta l’imperfezione e la fragilità umana, e le ali di rondine che simboleggiano la Resurrezione di Cristo. Il quadro “Riposo durante la fuga in Egitto” richiede un’analisi approfondita e si apre a diverse interpretazioni simboliche evocando emozioni profonde come l’umano ricordo dell’abbraccio amorevole famigliare, che tutti noi portiamo nel Cuore. La vita è un mistero, un enigma senza soluzione. Ma è proprio in questo mistero che risiede la bellezza e la poesia dell’esistenza umana. Siamo creature in cerca di significati, desiderosi di capire dove sia il nostro posto nel grande schema delle cose. E mentre cercare il significato della vita può sembrare un viaggio senza fine, è proprio in questo viaggio che troviamo la nostra crescita interiore.